Tra sonorità nuove e tracce consistenti del vecchio corso gli Afterhours sbarcano a Milano per la terza tappa del Folfiri e Folfox Tour. Due ore di musica che ha convinto sotto ogni punto di vista, persino lo zoccolo duro del suo pubblico più affezionato, quello milanese.
Dopo mesi di chiacchiere per lo più fini a se stesse (anche nostre, mica ci tiriamo indietro), gli Afterhours sono tornati nella loro Milano. Sul palco del Market Sound, Agnelli & Soci (nuovi e vecchi) hanno messo da parte gli “icsfactor che ti fottono l’anima”, gli “album che non sono più quelli di una volta” e “i cambi di formazione che comunque è sempre meglio prima”, portando in scena un paio d’ore ore di musica decisamente convincente. Prima di parlare del concerto, però, vorrei dire due paroline in merito al clima scettico che avvolgeva questa serata milanese: non voglio entrare nel meccanismo mentale di chi, davanti a un artista, parla di tradimento (o presunto tale) perché, nelle canzoni, io non riesco a vedere tradimento, in loro vedo solo l’espressione di un’emozione o la fotografia di un momento. E come tali, non possono tradire. Faccio molta fatica ad accettare chi giudica la produzione di un artista utilizzando come metro di paragone unico i suoi esordi, perché fare così vuole dire negare l’evoluzione non solo culturale ma anche biologica della persona che produce arte. Sarò scemo, sarò uno che di musica non capisce nulla, ma per me la cristallizzazione di un momento è una pretesa senza senso. Per questo, questa sera, ho voluto fortemente approcciare il live dei “miei” Afterhours con la mente più sgombra possibile. Da loro non ho voluto cercare conferme, anche perché non c’è bisogno di averle. Non ho chiesto rassicurazioni. Da loro ho preteso solo la possibilità di potermi sfogare, e data la voce rantolante che mi ritrovo, direi che l’ho ottenuta. Detto ciò, andiamo a incominciare.
La scaletta, come giusto che sia, ha privilegiato i brani dell’ultimo lavoro (qui la nostra recensione) ma non sono mancate le bombette di una vita, quelle che se hai una certa età, appena le senti non puoi non fermarti e passare in fila i ricordi, sia quelli belli, sia quelli brutti.
Agnelli è partito un po’ contratto, forse sono le canzoni nuove, forse un dolore alla spalla confessato in itinere, forse l’ansia di tornare davanti alla sua Milano. Però la voce c’è e non l’abbandona: potente quando serve, intensa sempre. Io, gusto personale, l’ho trovato perfetto proprio qui, nella quaterna iniziale (Grande, Ti cambia il sapore, Il mio popolo si fa, Non voglio ritrovare il tuo nome) dove la sua fatica, la sua “non sicurezza” (almeno così mi è parso) ha dato all’interpretazione un brivido che iddiolamadonna mi ha strappato la pelle di dosso. Sciolto il ghiaccio, sono arrivati i classiconi, Ballata per la mia piccola iena, Varanasi Baby, Padania… e qui, se i nuovi brani dal vivo dovevano convincere, le vecchie glorie hanno dato esattamente quello che dovevano. Le ultime sei canzoni, in particolare, sono state un attentato alle coronarie dei fan: Non è per sempre, Bianca, Strategie, Bye Bye Bombay e Quello che non c’è, tutte come sempre travolgenti. Discorso a parte per Pop, suonata da Agnelli solo con la chitarra: bella versione, non c’è che dire, bella e, diciamo così, parecchio… televisiva. Una menzione speciale, però, per quel che mi riguarda se la merita Costruire per Distruggere: una canzone già di per sé stupenda ma che questa sera, dal vivo, è stata autentico capolavoro.
Detto ampiamente del caro vecchio ma sempre muscolare Manuel, passiamo agli altri After: i “vecchi”, e per vecchi intendo il sinuoso Dellera e il folletto Iriondo, sono e restano la memoria storica, la fideiussione a garanzia della bontà del progetto Afterhours. Anche questa sera, uno alla destra e l’altro alla sinistra di Agnelli, hanno fatto il loro alla stragrande. I nuovi innesti, Rondanini e Pilia, se al debutto hanno dimostrato di saper assimilare gli schemi della band, quest’anno, complici il rodaggio e l’aver realizzato un album assieme, hanno aggiunto quel qualcosa di inedito che ad Agnelli -ciclicamente- serve come l’aria. Stesso discorso vale per Rodrigo D’Erasmo, ormai perfettamente calato nel progetto e capace, sia dal vivo, sia in fase creativa, di far risaltare la sua mano in maniera incisiva.
E dopo la stringata cronaca, passiamo alle note di colore:
– Rondanini da lontano pare Panariello, il che, evidentemente, non è un bene. Grazie a dio si fa perdonare pestando quella batteria come se non ci fosse domani.
– Per quanto abbia aprioristicamente deciso di non fare entrare nulla in questa recensione di ciò che sono stati gli ultimi mesi, devo confessare che ’sta menata di X-Factor un po’ mi ha condizionato. Credo sia normale, come credo sia normale che la mia non fosse solo un’impressione. Di molto “X-Factor”, ad esempio, oltre alla sopracitata versione solo chitarra di Pop, ci ho trovato i “grazie da stadio” urlati da Agnelli e il fatto che molta della gente attorno a me sapesse a memoria più le canzoni del nuovo album che quelle storiche.
– Tolte le abilità musicali, se dovessi rubare una qualità a ognuno dei membri degli Afterhours, prenderei la camicia di Pilia, i capelli di D’Erasmo, la clavicola ultramobile di Iriondo, i bicipiti di Agnelli, la furiosa seraficità di Rondanini e, soprattutto, le movenze felino-sexy di Dellera (stasera ha fatto una roba che i miei menischi si possono solo sognare).
– A proposito di cambiamenti, dieci anni fa, esattamente il 14 luglio 2016, mi laureavo. Ho festeggiato imbucandomi a una festa in piscina, rubando bottiglie a un open bar (che bel paradosso), bevendo di tutto, persino un mischione indefinito che mi venne versato direttamente da una scarpa con tacco. La mattina dopo ero fresco come una rosa ma ho dovuto ricostruire la serata tramite drammatiche telefonate agli amici. Domani, invece, le tre misere birrette di stasera so già che mi si riproporranno con rabbia, però, tra cinque minuti andrò a letto felice e con tante belle immagini nella testa. E la cosa più bella è che me le ricorderò tutte. Io, mi sa che preferisco così.